L’anno 2018 è quello in cui la scuola San Domenico festeggia i 140 anni dalla sua fondazione. In attesa dell’arrivo del periodo dedicato ai festeggiamenti, che sarà l’autunno prossimo, iniziamo un percorso nel passato, fatto di ricordi di ex-alunni o persone che ci hanno lavorato, per capire come eravamo e come siamo oggi… Le fotografie sono tratte dall’archivio della Scuola oppure sono dell’Autore. [NDR]
Carassone
A Carassone ci sono nato e ci ho abitato fino a otto anni. Ragion per cui, a tempo debito, ho frequentato anche io, come generazioni di carassonesi la scuola materna San Domenico, che allora, inizio anni ‘50 era conosciuta come l’Asilo. Ovviamente detto in dialetto. Asilu. Facendo sentire la A maiuscola per sottolinearne l’importanza agli occhi dei marmocchi in procinto di frequentarlo.
Confesso di non avere molti ricordi di quel periodo. Frammenti principalmente, peraltro non so nemmeno in che misura di prima mano o mediati del tutto o in parte da racconti di genitori, amici e compagni. Non riesco a richiamare alla mente nemmeno i nomi delle suore che ci accudivano.
Comunque la memoria funziona ancora abbastanza per poter affermare che, se la sede è sempre la stessa, le differenze per tutto il resto rispetto a oggi sono abissali.
Lo so, è la scoperta dell’acqua calda. Sono passati oltre sessant’anni e il mondo è cambiato parecchio. Tanto che oggi si rischia di non essere creduti e di essere guardati con quel misto di incredulità e condiscendenza che si riserva alle persone anziane un po’ svanite, se accenniamo ai tavoloni del refettorio con i buchi per infilare la scodella perché non si rovesciasse. Oppure al cestino che mamma confezionava ogni mattina, in cui sovente la faceva da padrone un uovo con scritto sul guscio il nome e il cognome del proprietario.
Soprattutto è complicato concepirne l’approccio pedagogico. Per carità. Non ricordo di essere mai stato maltrattato e, se si scontava una certa dose di severità oggi piuttosto desueta, eravamo comunque già stati abituati in casa a prendere atto che sul rispetto delle norme e il rispetto degli adulti non si transigeva e di conseguenza, se avessimo sgarrato, la punizione sarebbe stata automatica e meritata. Senza se, senza ma e senza tante discussioni, tentennamenti o giustificazioni.
Nonostante ciò però è difficile pensare oggi che certe pratiche fossero considerate del tutto normali. Faccio un esempio, anche se il ricordo nel suo complesso è incompleto e preciso solo in alcuni particolari.
Nel refettorio, in non so quale occasione, le suore avevano deciso di inscenare una sorta di sacra rappresentazione. A me era toccata la parte di San Sebastiano. Quindi mi avevano piazzato accostato alla lavagna, con i polsi dietro la schiena come fossi legato (non ricordo e non voglio pensare di esserlo stato veramente), mentre miei compagni, con archi giocattolo e frecce con la ventosa di gomma avrebbero dovuto fare la parte degli aguzzini che trafiggono il martire. Per fortuna le ventose generalmente non si attaccavano su alcuna superficie, men che meno sulla pelle umana, per cui mi fu almeno risparmiato di essere trasformato in una sorta di puntaspilli secondo la migliore iconografia martirologica. Ricordo bene però la mia voglia di piangere. O forse ho pianto veramente. Si potrebbe scrivere un libro su cosa si scatenerebbe oggi, di fronte a un episodio del genere, in un gruppo What’s App di genitori.
Comunque sono sopravvissuto ai tre anni di “asilo”, apparentemente con un numero limitato di traumi non troppo gravi, e ho quindi proseguito nel mio percorso educativo e didattico, salendo al piano superiore dell’edificio per frequentare le elementari. Ancora senza un nome. L’intitolazione a Giuseppe Airaldi, amico di mio padre e sindacalista, allora vivo e vegeto e padre di una mia compagna, sarebbe arrivata in anni successivi.
A questo punto, ed è una storia che racconto quasi sempre nei miei incontri con i ragazzi quando parlo di libri, ho avuto quella che posso definire una delle botte di culo maggiori della mia vita. Personificata nella figura della maestra Maria Carasso, che abitava in una palazzina dietro il campo sportivo. Lo so, in un paio di conversazioni con i miei vecchi compagni non tutti hanno condiviso il mio entusiasmo per lei. Tante teste, tante idee e altrettanti ricordi. Io semplicemente penso di doverle tantissimo.
Mi ha insegnato a scrivere in modo corretto, rifilandomi peraltro dozzine di “cinque” per la mia pessima calligrafia.
(Maestra, se ci sta guardando dall’alto, saprà benissimo che non solo non è migliorata ma, anche se difficile a credersi, addirittura peggiorata. Non se la prenda. Non è colpa sua).
Mi ha insegnato a leggere. Soprattutto però penso che sia riuscito a farmi il grande dono del piacere della lettura, tanto da farmi diventare un lettore onnivoro, nonostante i libri a casa mia mancassero totalmente. I primi praticamente li ho portati io.
E con quale strano metodo è stato raggiunto questo obiettivo? Semplicemente con la lettura ad alta voce nelle ultime mezze ore del pomeriggio, quando ormai eravamo tutti stremati da una giornata di lezioni.
Il racconto del piccolo vetraio, Senza famiglia, Incompreso, Cuore, Marcellino pane e vino, queste le letture che ricordo. Libri francamente improponibili per i bambini di oggi.
Ma erano storie, era narrazione, era quello che oggi si chiama storytelling, era la voglia di sapere come la vicenda sarebbe andata a finire, era cominciare a capire, anche se confusamente, i perché di quel sostantivo, di quel verbo, di quell’aggettivo. Era la magia della voce che ci cullava in una sorta di torpore rilassato nel caldo di un’aula, che probabilmente sapeva anche di stalla e di sudore, e ci apriva davanti orizzonti sconfinati.
Tra le letture ovviamente non poteva mancare Pinocchio. E a Pinocchio è legato uno dei ricordi più belli della mia infanzia. La maestra legge, fuori nevica e io sono felice pregustando la battaglia a palle di neve che ci aspettava fuori.
Quel libro la maestra me lo regalò quando, finita la terza, la mia famiglia si trasferì sull’Altipiano a causa del lavoro di mio padre. Ce l’ho ancora, ammaccato e rabberciato per lo scorrere del tempo e per gli innumerevoli traslochi che ha dovuto sopportare. Lo tengo sullo stesso scaffale su cui ci sono i miei libri, quelli che ho scritto io.
So benissimo che la mia esperienza è molto personale e che probabilmente per altri miei compagni la lettura ad alta voce della maestra non ha ottenuto gli stessi risultati. Non ha importanza. Con me ha funzionato e in fondo questo è uno degli scopi principali della scuola. Offrire ai bambini e ai ragazzi il maggior numero di opportunità, in modo che possano essere colte da ognuno secondo le sue inclinazioni, i suoi interessi, le sue capacità e le sue attitudini.
Io, su questo piacere della lettura e poi della scrittura ho costruito la mia vita.
Prima con la scelta del corso di studi, magistrali e lettere, poi con la professione di insegnante, nel cui ambito ho afflitto anche parecchi carassonesi, e infine con la scrittura. Nell’arco ormai lungo della mia vita professionale mi sono divertito e ho conosciuto persone interessanti. Compresi alcuni autori che mi affascinavano quando ero bambino, come Mino Milani e Grazia Nidasio, pietre miliari nella storia della letteratura e dell’illustrazione per bambini in Italia.
Potrei concludere con il solito pippone su quanto la scuola sia importante e quanto sia fondamentale che lo stato investa su di essa. E su quanto, in fin di conti, molto dipenda dagli insegnanti che si incrociano per strada. Non lo faccio, se non per questo breve accenno. Anche perché è l’argomentazione sottintesa a tutto quanto sto scrivendo.
Voglio però finire con un sorriso, permettendomi, e ne chiedo scusa in anticipo, una autocitazione da uno dei miei libri Massimo da sistemare scritto con Loredana Frescura. Chi parla è il protagonista, Massimo, un ragazzino di nove anni.
“Isabella è bellissima. Isabella è fantastica. Isabella è bellissima e fantastica. Isabella è meravigliosa. Isabella è bellissima fantastica meravigliosa.
Mi sveglio con tanti aggettivi e un solo nome”.
Ecco, in queste parole c’è anche il me stesso di sette- otto anni, invaghito, come può esserlo un bambino, di una delle sue compagne di classe. Quando si scrive si pesca soprattutto dai propri ricordi e la scuola di quel periodo continua a fornirmi spunti.
Marco Tomatis
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