Che cosa c’entra l’arte del kintsugi con la Pasqua di Gesù?
Andiamo per ordine. Il kintsugi è quel procedimento mediante il quale gli artigiani giapponesi saldano con la lacca un oggetto andato a pezzi, poi riempiono le linee di frattura usando oro liquido o in polvere. In tal modo, quell’oggetto non solo è recuperato, ma diventa molto più prezioso, proprio grazie alle sue fratture evidenziate dall’oro.
Non vi sembra una metafora straordinaria per esprimere il senso della risurrezione? Secondo i racconti evangelici, Gesù risorto quando si fa vedere ai discepoli per essere riconosciuto mostra ad essi le ferite della sua crocifissione. Quelle ferite non sono scomparse, come cancellate da un colpo di spugna: rimangono sul corpo del Risorto, perché sono i segni della sua passione.
Nel doppio significato di questa parola, che indica tanto la sofferenza subita quanto la dedicazione coinvolgente.
Le ferite del Crocifisso sono la gloria del Risorto, in quanto costituiscono la traccia indelebile del suo donarsi a favore di tutti. Appunto come le fratture dorate del kintsugi, sono quelle ferite a rendere prezioso il corpo del Vivente, proprio nel loro essere segni incancellabili di una passione per nulla fittizia o soltanto transitoria.
E’ la lezione impegnativa del kintsugi pasquale: la gioia della risurrezione non è da intendersi come una compensazione consolatoria, poiché non elimina magicamente le tracce del dolore che la precede, bensì le riscatta rendendole fregi pregiati di un Amore più forte di ogni speranza andata in frantumi.
Il Risollevato
Certo, ciò che è accaduto a Gesù di Nazareth dopo la sua morte di croce non è una realtà che possa essere descritta con il linguaggio della cronaca.
Qui è indispensabile piuttosto il linguaggio della metafora, che permette di evocare con parole comuni quanto è assolutamente unico. Così hanno fatto gli autori dei vangeli, e più in generale degli scritti neotestamentari, quando hanno parlato di Gesù crocifisso come colui che è ri-sorto, ri-suscitato, innalzato da terra.
Forse si potrebbe raccogliere il senso di queste metafore, riferendoci al Nazzareno come al Risollevato: colui che era stato schiacciato dal peso dell’ingiustizia, della prevaricazione, della violenza fino all’annientamento, è stato di nuovo sollevato dal Padre, che lo ho liberato definitivamente da quel peso di peccato e di morte.
Tuttavia, la buona notizia di Pasqua non finisce qui. La buona notizia è ancora che il Risollevato è anche colui che ci risolleva. Non però in maniera magica, esonerandoci dal misurarci con l’aggressione del male. Neppure lui, in realtà, è stato esonerato da tale aggressione, bensì l’ha attraversa sino in fondo.
Proprio per questo ora può abilitare chiunque si affidi ad affrontare le potenze della distruzione con la speranza fondata di essere a propria volta risollevato, anziché rimanerne sottomesso per sempre.
Nondimeno, ciò smette di apparire soltanto come una utopia, esclusivamente a patto che almeno Uno lo abbia sperimentato e lo attesti in maniera affidabile. Da quel primo giorno dopo il sabato, ogni uomo e ogni donna che spera anticipa di fatto con il suo comportamento, quanto il Risollevato ha inaugurato e portato a compimento nella sua carne consegnata per tutti.
La speranza, per tutti
Chi cerca di vivere come Gesù Cristo sa che la qualità di un’esistenza si misura sulla qualità della propria speranza: il contrario di una vita buona non è immediatamente una vita cattiva, malvagia, bensì è una vita vana, vuota, che non ha prospettive o si li limita ad aspettative di corto respiro. Quindi si tratta di maturare un’attesa realistica, che non ammette nessun catastrofismo ma neppure nessun provvidenzialismo consolatorio. Da questo punto di vista, il cristiano non ha il mito del progresso onnipotente; è consapevole che bisogna fare i conti con il limite, con il male, con le potenze negative che aggrediscono e minacciano la realtà personale, sociale, ambientale.
Nello stesso tempo, la sfida della fede è affrontare tutto questo condividendo la medesima fiducia di Gesù nell’affidabilità di Dio, nella fedeltà di Dio alla sua promessa di bene, di compimento, di riscatto. A questo proposito, sembra sorprendente che il vocabolo greco usato per dire la speranza – «elpis» – non compaia in nessuna delle parole di Gesù, che ci sono state trasmesse dai vangeli. In realtà, da questa circostanza testuale si può ricavare una lezione significativa: chi genera la speranza non è colui che ne pronuncia il nome più frequentemente, ma è piuttosto chi la testimonia con la forza di una vita davvero segnata dalla capacità di sperare. La speranza si irrobustisce solo se la si mette alla prova, solo se non ci si limita a «dirla» ma si è disposti ad «agirla» effettivamente. Qui si coglie tutta la tensione tra il già e il non ancora, che la Pasqua mette in evidenza: soltanto la salvezza già sperimentata permette di sperare ancora la salvezza, e sperare per tutti, a beneficio di tutti.
Duilio Albarello
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